“Il Giornale” intervista Stefano Sansavini

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La globalizzazione dei mercati ha tempo messo le realtà imprenditoriali di fronte ad una sfida tanto interessante quanto delicata: insediarsi sui mercati esteri è divenuta ormai una necessità dettata dai tempi, dall’evoluzione del mercato, della finanza e dei consumatori. Per il tessuto aziendale italiano, costituito soprattuto, da piccole-medie imprese, la sfida è ancor maggiore: la possibilità di sopravvivenza passa sia attraverso la capacità di far sistema sia attraverso una formazione che porti ad una internazionalizzazione ragionata e pianificata.

Ostacoli buracratici e commerciali possono e devono essere superati: parola di Stefano Sansavini che proprio su questo argomento è stato intervistato dalla rivista mensile “Dossier”, inserto del quotidiano nazionale “Il Giornale”.  Riportiamo l’intervista completa del colelga Nicolò Mulas Marcelo.

Tra i servizi offerti dalle Camere di commercio riveste una grande importanza l’internazionalizzazione. Il progetto “Per esportare” ad esempio, nasce da un bisogno delle imprese di creare rapporti commerciali con i paesi stranieri. L’idea è stata sviluppata alcuni anni fa dalla Camera di commercio di Treviso e da un paio di anni viene realizzato anche in collaborazione con Veneto Promozione. Il progetto si articola in diversi interventi formativo-consulenziali rivolti alle pmi del territorio su
temi diversi fra loro, ma legati al processo di internazionalizzazione. «Le imprese iscritte – spiega Stefano Sansavini, titolare di Change Project e relatore del progetto – possono così capire se hanno i requisiti per internazionalizzarsi, come sviluppare business all’interno dei paesi emergenti, ottimizzare la partecipazione alle fiere, creare una rete distributiva all’estero, presentare la propria azienda per creare valore aggiunto».
Il percorso di internazionalizzazione non si può improvvisare.
Quali sono i principali aspetti da tenere in considerazione?
«Si tratta di una splendida opportunità di sviluppo, ma è un processo complesso che richiede un’attenta analisi fatta da esperti e l’avanzamento in più fasi. I principali passi che l’azienda deve fare sono rispondere a queste domande: “Perché internazionalizzarsi? Perché scegliere un determinato paese? Quali sviluppi si aspetta esattamente e in quali tempi?”. Occorre confrontare gli obiettivi aziendali con un’analisi del mercato d’interesse attraverso specifici studi di settore. In altre parole, capire “quanto è vendibile” il proprio prodotto o servizio nel mercato di interesse. Se si decide di proseguire il percorso, si sviluppa un vero e proprio piano, definendo le strategie e il dettaglio delle azioni e dei tempi. Poi si apre la ricerca dei partner locali, si avvia la formazione del personale, in particolare sulla gestione delle vendite in un paese estero. E poi si selezionano le fiere B2B a cui partecipare o altri tipi di eventi utili a creare una rete di contatti senza la quale internazionalizzarsi diventa difficile. Naturalmente non va dimenticata la parte burocratica».
A proposito di fiere, con quali strumenti è possibile ottimizzare la partecipazione per un’azienda?
«Gli errori più comuni che vedo nelle fiere non stanno nello stand e nella visibilità dello stesso, ma ad esempio negli inviti, nella presentazione del prodotto ai potenziali clienti, nella pessima valorizzazione del nostro made in Italy, nella gestione della lista di nominativi una volta rientrati in azienda. L’Italia è il paese europeo in cui le aziende spendono la maggior fetta dei propri budget pubblicitari in fiere (circa il 30%), siamo seguiti dalla Germania che si attesta intorno al 25%, da Gran Bretagna e
Francia, che invece stanno sul 20-22%. Tutti gli imprenditori sanno i motivi per cui si dovrebbe andare in fiera, ma spesso quando domandiamo a un imprenditore perché partecipa a una certa fiera risponde: “Come faccio a non partecipare, i miei concorrenti ci sono”».
Cosa chiedono oggi le aziende italiane che si rivolgono alle società di consulenza e formazione?
«Il nostro ampio ventaglio di contatti con le aziende ci permette di osservare che la crisi colpisce tutti, ma le aziende più orientate al cambiamento la gestiscono meglio. Qualche esempio: le aziende più formate sotto il profilo commerciale sono più rapide nel rinnovare il portafoglio clienti, non aggravano il problema del crollo dei volumi con l’abbassamento dei prezzi, sanno gestire meglio le risorse, rafforzando il commerciale e il servizio clienti. Insomma, sono coscienti che solo producendo cambiamenti possono sopravvivere. La formazione che ci viene richiesta maggiormente oggi riguarda la parte organizzativa: rivedere i ruoli interni dei dipendenti per ottimizzare e gestire al meglio le risorse umane dell’azienda. Ma importante è anche la formazione motivazionale, quella commerciale e la formazione “on the job”, che permette di formare durante il lavoro, così l’azienda non si ferma e i risultati sono personalizzati».

 

Simone Grasso

 

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